martedì 29 settembre 2015

A vinnignia!

Le domeniche mattina di quando ero piccina indistamente emergono in frammenti che sono molto più che ricordi. Molto più che immagini sbiadite e indefinite. Non è necessario che io chiuda gli occhi per imprimerle tra occhi e palpebre. Basta un'immagine, un profumo perché si materializzino davanti a me, sovrapponendosi a quello che adesso ho davanti. Così la realtà circostante diventa sfondo e queste immagini si innestano tra pareti e mobili. Le domeniche di fine settembre, quelle di metà stagione dove freddo, caldo, umido e vento convivevano nella stessa giornata. Ricordo quando staccavo la testa dal cuscino con miei capelli lisci e lucidi, gli stessi che rivedo in quella di mio figlio. Indossavo una tuta blu con le strisce bianche, gli stivali di gomma o le scarpe da tennis. Quando arrivavo nella vigna mi equipaggiavano di un cesto di vimini e forbici, ma io avevo in tasca la mia piccola ronca. Erano più le volte che mi tagliavo che quelle in cui riuscivo a riempire il cesto. Era tutta una corsa per me, inciampavo e mi sbucciavo mani e ginocchia tra le ruvide pietre di sciara. Non ricordo però un filo di paura. Mi rialzavo e ricominciavo a correre raccogliendo l'uva caduta e i chicchi sparsi. Le raccomandazioni dei grandi "Non lassati filagni arredi", "Cugghiti pura i coccia". A differenza degli altri bambini io ero lì come ospite, vivevo la giornata con leggerezza e serenità. Lavoravo due minuti e giocavo due ore. Non capivo perché gli altri bambini la prendessero così seriamente e non venissero a giocare con me. Salivo e scendevo in continuazione dal trattore che trasportava l'uva, andavo a cercare i grappi bianchi più grossi, per mangiarli. Mi arrampicavo sui pochi alberi presenti nella vigna e scendevo solo quando le formiche con la testa rossa cominciavano a mordermi. Poi il momento del pranzo. Tutti erano più rilassati. Il lavoro più grosso era stato fatto. Ognuno sceglieva un cantuccio e mangiava quel che c'era. Pane di casa, fette grosse come il mio viso, foraggi di ogni tipo, olive. Vino, bevande, pasta scotta, salsiccia grigliata. I ciambelloni a fine pasto assomigliano più a enormi ruote di auto. A fine giornata si pestava l'uva. Rimboccavo la tuta fino alle ginocchia, toglievo le scarpe e poi passavo come fossi un fuscello tra le mani dei grandi che mi mettevano dentro le enormi vasche di pietra lavica. Ci stavo una decina di minuti tra risate e gridolini. Mi sembrava assurdo pestare con i piedi qualcosa che poi doveva esser bevuto. Quando uscivo correvo a lavarmi tutta appicicaticcia ed eccitata. L'acqua era gelida, adoravo berla tra le mani. Assaggiavo sempre il mosto, nonostante sapessi che c'erano stati i piedi di tutti, mi inebriava il profumo, il sapore dolciastro e corposo. Poi il rientro a casa, mi addormentavo in macchina e mi svegliavo solo quando mi chiamavano per scendere dall'auto. A vinnignia è uno dei ricordi più belli della mia giovinezza.

domenica 14 giugno 2015

Nostalgica non lo sono mai stata. Sicuramente sono un'attenta osservatrice, spesso critica. Ma le mie critiche sono perlopiù rivolte a me stessa e al mio modo di interagire. Quando mi permetto di fare un'osservazione su qualcosa e su qualcuno lo faccio sempre con le migliori intenzioni, per far emergere un malfunzionamento. Da qualche tempo quotidianamente non smetto di riflettere sui nuovi tipi di socialità, sulle dinamiche dei rapporti umani di questo tempo. Io provengo dalla generazione di mezzo, quella che aveva raggiunto un discreto equilibrio in fatto di socializzazione. Le condizioni dell'ambiente circostante e dei mezzi di comunicazione ci permettevano di essere più veri. Ci fiatavamo di più. Un corteggiamento poteva durare settimane. Si cominciava dagli sguardi e poi si proseguiva con il gironzolarci attorno. Potevamo stare appostati per ore nei luoghi in cui pensavamo di incontrare una certa persona, e chissà quante volte lo avevamo immaginato. Era una rarità rubarsi uno sguardo, un sorriso, una smorfia. Ci nutrivamo di queste piccole emozioni per giorni. Questo modo di fare accresceva il desiderio, le aspettative. Avevamo il tempo di abituarci alle persone, di affezionarci, di integrarle al nostro quotidiano. Sebbene non esistessero tutte queste tecnologie, i servizi di localizzazione, la messaggistica istantanea, i social, trovavamo il modo di incontrare le persone che ci interessavano, quelle a cui volevamo bene. Pertanto quando mi passano per le mani questi nuovi rapporti usa e getta che si montano e smontano nel giro di una manciata di ore, permettetemi di storcere il muso, di dissentire. Per carità anche ai miei tempi esistevano le passioni fulminanti, che nascevano da un bacio improvviso, ma erano comunque rare. Questa rarità conferiva a loro il giusto valore. Ai miei tempi non si poteva perdere il gusto per le cose, facevamo ciò che ci piaceva con parsimonia, con rispetto dei sentimenti. E questo ci ha permesso di assaporare la vita con veracità e voracità. Conoscevamo il gusto ben definito di ogni singola situazione e lo gustavamo esaurendone le dinamiche. Non eravamo così asettici, misurati. A muoverci era il bisogno, le emozioni e della tempestività non sapevamo cosa farcene. Sono una che attribuisce il giusto valore ai nuovi mezzi di comunicazione, ci aiutano a stare "vicini" e a tenere rapporti più costanti con chi amiamo. Ma appunto li considero "mezzi" non "fonti". La fonte, è sempre e soltanto una : l'anima. Per metterla in campo abbiamo bisogno della fisicità di uno sguardo, della leggerezza di una carezza e del calore di un abbraccio. Nelle parole sosta solo brevemente, per il tempo che gli è concesso.

venerdì 1 maggio 2015

In un'immagine c'è tutto ciò che vediamo e anche quello che non riusciamo a vedere. C'è quello che ci piace e vorremmo trattenere. C'è dentro il caso ma anche l'occasione. C'è impeto e passione ma anche intuizione e sensibilità. In uno scatto c'è la meraviglia che si palesa e l' emozione che scaturisce in noi. E' la bellezza della nostra prospettiva. E' il dialogo continuo tra occhio e tempo e spazio. E' la coniugazione del vedere e dell'essere visti. E' il tempo che si ferma un istante solo per noi. Fotografare non è un azione superficiale, ma una necessità repentina e densa. E' l'unico modo che abbiamo per trattenere l'incanto e fissarlo all'eterno.

venerdì 27 marzo 2015

14 agosto 1945. New York, Times Square. Viene annunciata la fine della Seconda Guerra Mondiale. Alfred Eisenstaedt immortala in quell'occasione una delle immagini del bacio destinata a diventare celeberrima. Questo scatto divenne subito bandiera di passione facendo il giro del mondo. Eppure c'è a riguardo una polemica di impronta femminista che ne smorzerebbe il valore. Sembra che questa dimostrazione passionale del marinaio Glenn McDuffie  fosse frutto di un vero e proprio abuso ai danni dell'infermiera Greta Friedman. Lo stesso fotografo dichiarò che il marinaio quel giorno cercò di baciare tutte le donne incontrate. Secondo un'analisi posturale la ragazza avrebbe un atteggiamento riferibile a una certa neutralità. Ciò a parere di alcune femministe dimostrerebbe che la "poverina" non avesse dato alcun consenso all'audace marinaio. Beh! Io non sono d'accordo e non dovrebbe esserlo nessuna persona di buon senso. In primis anche se la postura della donna non esprime partecipazione dall'altra sottende invece totale abbandono, che è più logico quando si riceve un bacio da un estraneo. E poi al tempo per una donna era sconveniente ricambiare un bacio tanto audace in pubblico.In ogni caso non lo sta in alcun modo respingendo. Oltretutto la stessa Greta ha sempre dichiarato  di aver gradito quel bacio. Femministe, attaccatevi a battaglie più produttive, questo scatto senza pretese è un immagine di sublimazione della felicità. Nient'altro che questo.

mercoledì 4 febbraio 2015

Disattendersi o bastarsi?

Già da piccola ho manifestato le prime avvisaglie di osservatrice acuta. Mentre tutti erano vorticosamente impegnati nello svolgimento dei loro compiti, delle loro mansioni, io in silenzio li scrutavo. Per invocare una rappresentazione suggestiva, potrei descrivere l'immagine chiara, definita, di una bambina in mezzo a una folla di sagome indefinite e convulse. Con lo sguardo puntavo il soggetto che decidevo di analizzare e come per incanto il tempo rallentava per entrambi. Il torpore dello scorrere del tempo mi permetteva di classificare gli atteggiamenti, i movimenti e le reazioni. Potevo scomporre e analizzare minuziosamente il comportamento e trarne le mie conclusioni. Negli anni questa dote si è affinata, divenendo una tecnica personalizzata anche dalla natura polemica. Mi bastano pochi sguardi, parole e movimenti per ottenere una relazione completa dalla mia logica. Le mie analisi sono spesso rivolte ad atteggiamenti che trovo interessanti o di contro tediose. Indago sulla natura, sulla forza che spinge una persona a comportarsi in un determinato modo. Probabilmente mi serve  per forgiare il mio modello comportamentale. E' un tentativo di scoprire la forza motrice per evocarla quando la ritengo produttiva o evitarla quando la ritengo sterile.
Quando scruto un individuo preso o sorpreso dalla passione, cerco puntalmente di coglierne la fiamma che lo brucia, l'incipit che lo smuove.Spessissimo ne rimango travolta. Perché la passione vera, è così. E' un'energia talmente potente e talmente percettibile che s'irradia nell'aria, si propaga come il suonoed entra nelle nostre fibre. Per esserne catturati è sufficiente essere dei portatori sani, pronti a recepirla.
Di contro osservo anche persone con comportamenti antipodici. Intrappolati in una tediosa quotidianità in un modo raccapricciante. A me fanno accaponare la pelle. Si tratta di individui intenti a pianificare, ottimizzare e perpetuare le loro attività quotidiane. Fin qui nulla di strano direi.Il fatto è che sto parlando di soggetti che non hanno una cippa da fare!!!Cioè le loro mansioni sono perlopiù una produzione di servizi per la famiglia. Ma questa produzione, li divora e li assorbe, li annulla fino a perdere senso e fino a diventare più importante dei familiari stessi.
Un esempio? Avete presente una di quelle casalingheconvulse?. Passano intere giornate a pulire minuziosamente e poi tutta la vita a fare in modo che nulla si sporchi. Se potessero confezionerebbero i figli e i mariti nel cellophane e comanderebbero i loro movimenti con la telecinesi. Ma dico che vita è? Sono sempre lì a tormentare tutti per le gocce lasciate in bagno, per il lavandino bagnato, per le impronte lasciate, per il tappeto spostato, per aver usato il doppio servizio buono!!!Ossignur ci muoio di crepacuore. Il loro unico scopo è non sporcare e passano il loro tempo ad affinare la tecnica delle pulizie per ottenere il massimo con il minimo sforzo. Poi vanno in giro vantandosi della loro grande dedizione alla faccende. Questo le rende soddisfatte.
Io sono tollerante verso ogni forma di espressione umana, ma totalmente repulsiva verso quelle sterili come questa appena descritta. Possibile che la vita di una persona debba ridursi a questo? Debba scorrere tra il perpetuare delle pulizie e i programmi sciacalli del pomeriggio?Capirei se l'ottimizzazione applicata fosse atta ritagliarsi del tempo per coltivare una passione personale. Di quelle che fanno bene a mente e corpo. Queste invece hanno imparato solo a curarsi del corpo per i beni di prima necessità : quelli fisiologici. Non c'è spazio per lo spirito, per i diversivi. Sposano senza indugi le opinioni degli altri, per non affaticarsi a produrre di proprie. Perciò se la tv dice qualcosa, diventa un pensiero sovrano e assoluto.
Per concludere, mi chiedo se queste persone davvero si disattendono (il che sarebbe comunque una presa di coscienza), o vivono incubate in questo tedioso stato. Voi che ne dite?

sabato 31 gennaio 2015

Abiti discriminanti?

Stamane mentre mi accingevo a vestirmi, mi sono posta un quesito. Per la verità più di uno. Avete presente quella serie di dilemmi concatenati alla Ally McBeal? Dopotutto ognuno di noi ha il suo giorno da svampita no?
Il dilemma in questione è scaturito, appunto, mentre stavo per indossare un abitino di poche pretese. Vedrete più in avanti, quanto poche fossero davvero le pretese. Per farvi un'idea a 360 gradi, allegherò anche una foto del suddetto. Tale abitino, preso su una bancarella per pochissimi euro (giusto 6 mi pare) con etichetta made in Italy by Rossocapriccio, era a dire della venditrice ambulante, una rimanenza di negozio. Quindi stiamo parlando di un abito da Outlet, per usare un termine in voga. Nessuna indicazione sulla taglia, tessuto semielastico fitto, poliestere, testa di moro, smanicato, sagomato, scollo quadrato, un po' svasato sul fondo, lunghezza a metà gamba. Mi è piaciuto il prezzo e il modello. Me lo sentivo addosso. Una volta a casa, l'ho subito indossato. Mi calzava a pennello. Per dirla tutta, sembrava che fosse cucito sul mio corpo. Nessuna tensione, nessun punto stretto. Dopo le prime considerazioni ho pensato che prima di cantar vittoria dovessi comunque chiudere la lunghissima cerniera posta sul retro. La prima metà è stata una bazzecola. Dalle scapole in su cominciano a sorgere le difficoltà. Sebbene io sia una sportiva, di corporatura particolarmente elastica, ho dovuto compiere un azione smisurata per arrivare a fine corsa della chiusura. Sono sicura di esserci riuscita grazie all'eccessiva mobilità delle mie articolazioni. Vi assicuro che a meno che non si tratti di una ginnasta quindicenne, l'impresa risulta impossibile da compiere in solitaria. 
Analizziamo la chiusura lampo, che così lampo non è. Circa 70 cm di zip, la cui fine arriva all'altezza della vertebra cervicale C7. Per chiuderla è necessario suddividere il movimento in due tempi. Il primo col braccio destro piegato dietro la schiena ,che spinge fino all'altezza delle scapole (sempre che vi riesca), e il secondo sempre col braccio destro, che passa dietro la schiena scendendo dalla spalla.
 Vi assicuro che se non siete allenate non riuscirete. Potete però cimentarvi nell'esecuzione del classico esercizio di elasticità, delle mani che si toccano dietro la schiena. Per capirci cliccate su questo link. Un braccio che entra da dietro la spalla e l'altro che entra dal punto vita. Probabilmente dopo una settimana di allenamento riuscirete a chiudere la lampo.
Conclusa questa considerazione veritiera, si presuppone che se non siete, come dicevo prima, delle giovani ginnaste, dovete perlomeno essere sposate, o fidanzate o conviventi. E' necessario che viviate con qualcuno e che questo qualcuno sia in casa ogniqualvolta deciderete di indossare l'abito. Ovviamente il problema non si porrebbe affatto se foste Mc Giver, il quale troverebbe un ingegnoso sistema per indurre la cerniera a chiudersi con nonchalance.
E' qui che mi è sorta l'idea che la questione potrebbe facilmente essere sposata da qualche femminista incallita, che addita ogni pretesto come discriminatorio (alla condizione che lo stesso riguardi un ristretto numero di persone senza poter essere esteso alla parziale totalità). Un abito taglia 40/42 per un corpo 90,66,91. Solo la pronuncia verbale di questi numeri, potrebbe far gridare alla discriminazione, alla trasposizione della figura della donna come oggetto.
Se a questo assunto aggiungiamo anche l'irragiungibile cerniera, verrà fuori il quadro di un mostro della produzione tessile all'ingrosso. Lo scempio del messaggio insito nelle forme di quell'abito, nell'affronto che palesa nelle sue dimensioni e nella sua fattura. Si tratta sicuramente di un abito discriminatorio che subliminalmente (ma non troppo) detta l'imperativo che a indossarlo può essere solo una donna dalla corporatura impeccabile, con un passato da ginnasta e un legame sicuro (tale da garantire la chiusura della zip). "Si!! E' assolutamente un' indecenza, direbbero i gruppi infervorati delle zitelle sciatte. "Un affronto selettivo ad opera dei grandi distributori di abbigliamento. "
Con questa considerazione concludo il mio viaggio paranoioco in salsa femminista e un po' svampita , e aggiungo :"Smettiamola di arrabbiarci col mondo e di dare la colpa agli altri per quello che siamo."
Con leggerezza , vostra kate.

giovedì 29 gennaio 2015

Richard Smith: "Morire di cancro è la morte migliore"

L'argomento è sicuramente delicato da trattare. La prima considerazione che sorge spontanea in me è quella che purtroppo il trattamento contro il cancro è uno di quei casi in cui il rimedio è peggio della cura. Durante il periodo di cure, i pazienti sono sottoposti a uno stress emotivo tale da non poter concludere che è il miglior modo di morire. Il tradimento del proprio corpo, le energie spese a contrastarlo. Le speranze che svaniscono e l'idea fissa che dal giorno della diagnosi i malati sanno che dovranno morire, rendono impossibile ogni considerazione e organizzazione rilassata. Sappiamo tutti che il nostro contratto di vita è a tempo determnato, ma quando lo dice un medico, è come se scattasse una specie di timer biologico e la parola "morte" assume una solennità profetica. Qualunque sia il modo, non credo ne esista uno migliore. La morte è il peggior affronto alla vita, ma è inevitabile. Richard Smith ha solo raccontato a voce alta il suo modo di affrontare emotivamente la malattia, e si è permesso di proferire il suo pensiero in questi termini solo perché direttamente coinvolto. Anche se non avesse dichiarato la sua morte imminente, le sue parole sono un chiaro testamento e la volontà di aver l'ultima parola su qualcosa che la parola non usa, ma l'inganno del silenzio e dell'azione devastante in sordina : il cancro.