sabato 31 gennaio 2015

Abiti discriminanti?

Stamane mentre mi accingevo a vestirmi, mi sono posta un quesito. Per la verità più di uno. Avete presente quella serie di dilemmi concatenati alla Ally McBeal? Dopotutto ognuno di noi ha il suo giorno da svampita no?
Il dilemma in questione è scaturito, appunto, mentre stavo per indossare un abitino di poche pretese. Vedrete più in avanti, quanto poche fossero davvero le pretese. Per farvi un'idea a 360 gradi, allegherò anche una foto del suddetto. Tale abitino, preso su una bancarella per pochissimi euro (giusto 6 mi pare) con etichetta made in Italy by Rossocapriccio, era a dire della venditrice ambulante, una rimanenza di negozio. Quindi stiamo parlando di un abito da Outlet, per usare un termine in voga. Nessuna indicazione sulla taglia, tessuto semielastico fitto, poliestere, testa di moro, smanicato, sagomato, scollo quadrato, un po' svasato sul fondo, lunghezza a metà gamba. Mi è piaciuto il prezzo e il modello. Me lo sentivo addosso. Una volta a casa, l'ho subito indossato. Mi calzava a pennello. Per dirla tutta, sembrava che fosse cucito sul mio corpo. Nessuna tensione, nessun punto stretto. Dopo le prime considerazioni ho pensato che prima di cantar vittoria dovessi comunque chiudere la lunghissima cerniera posta sul retro. La prima metà è stata una bazzecola. Dalle scapole in su cominciano a sorgere le difficoltà. Sebbene io sia una sportiva, di corporatura particolarmente elastica, ho dovuto compiere un azione smisurata per arrivare a fine corsa della chiusura. Sono sicura di esserci riuscita grazie all'eccessiva mobilità delle mie articolazioni. Vi assicuro che a meno che non si tratti di una ginnasta quindicenne, l'impresa risulta impossibile da compiere in solitaria. 
Analizziamo la chiusura lampo, che così lampo non è. Circa 70 cm di zip, la cui fine arriva all'altezza della vertebra cervicale C7. Per chiuderla è necessario suddividere il movimento in due tempi. Il primo col braccio destro piegato dietro la schiena ,che spinge fino all'altezza delle scapole (sempre che vi riesca), e il secondo sempre col braccio destro, che passa dietro la schiena scendendo dalla spalla.
 Vi assicuro che se non siete allenate non riuscirete. Potete però cimentarvi nell'esecuzione del classico esercizio di elasticità, delle mani che si toccano dietro la schiena. Per capirci cliccate su questo link. Un braccio che entra da dietro la spalla e l'altro che entra dal punto vita. Probabilmente dopo una settimana di allenamento riuscirete a chiudere la lampo.
Conclusa questa considerazione veritiera, si presuppone che se non siete, come dicevo prima, delle giovani ginnaste, dovete perlomeno essere sposate, o fidanzate o conviventi. E' necessario che viviate con qualcuno e che questo qualcuno sia in casa ogniqualvolta deciderete di indossare l'abito. Ovviamente il problema non si porrebbe affatto se foste Mc Giver, il quale troverebbe un ingegnoso sistema per indurre la cerniera a chiudersi con nonchalance.
E' qui che mi è sorta l'idea che la questione potrebbe facilmente essere sposata da qualche femminista incallita, che addita ogni pretesto come discriminatorio (alla condizione che lo stesso riguardi un ristretto numero di persone senza poter essere esteso alla parziale totalità). Un abito taglia 40/42 per un corpo 90,66,91. Solo la pronuncia verbale di questi numeri, potrebbe far gridare alla discriminazione, alla trasposizione della figura della donna come oggetto.
Se a questo assunto aggiungiamo anche l'irragiungibile cerniera, verrà fuori il quadro di un mostro della produzione tessile all'ingrosso. Lo scempio del messaggio insito nelle forme di quell'abito, nell'affronto che palesa nelle sue dimensioni e nella sua fattura. Si tratta sicuramente di un abito discriminatorio che subliminalmente (ma non troppo) detta l'imperativo che a indossarlo può essere solo una donna dalla corporatura impeccabile, con un passato da ginnasta e un legame sicuro (tale da garantire la chiusura della zip). "Si!! E' assolutamente un' indecenza, direbbero i gruppi infervorati delle zitelle sciatte. "Un affronto selettivo ad opera dei grandi distributori di abbigliamento. "
Con questa considerazione concludo il mio viaggio paranoioco in salsa femminista e un po' svampita , e aggiungo :"Smettiamola di arrabbiarci col mondo e di dare la colpa agli altri per quello che siamo."
Con leggerezza , vostra kate.

giovedì 29 gennaio 2015

Richard Smith: "Morire di cancro è la morte migliore"

L'argomento è sicuramente delicato da trattare. La prima considerazione che sorge spontanea in me è quella che purtroppo il trattamento contro il cancro è uno di quei casi in cui il rimedio è peggio della cura. Durante il periodo di cure, i pazienti sono sottoposti a uno stress emotivo tale da non poter concludere che è il miglior modo di morire. Il tradimento del proprio corpo, le energie spese a contrastarlo. Le speranze che svaniscono e l'idea fissa che dal giorno della diagnosi i malati sanno che dovranno morire, rendono impossibile ogni considerazione e organizzazione rilassata. Sappiamo tutti che il nostro contratto di vita è a tempo determnato, ma quando lo dice un medico, è come se scattasse una specie di timer biologico e la parola "morte" assume una solennità profetica. Qualunque sia il modo, non credo ne esista uno migliore. La morte è il peggior affronto alla vita, ma è inevitabile. Richard Smith ha solo raccontato a voce alta il suo modo di affrontare emotivamente la malattia, e si è permesso di proferire il suo pensiero in questi termini solo perché direttamente coinvolto. Anche se non avesse dichiarato la sua morte imminente, le sue parole sono un chiaro testamento e la volontà di aver l'ultima parola su qualcosa che la parola non usa, ma l'inganno del silenzio e dell'azione devastante in sordina : il cancro.

domenica 25 gennaio 2015

Ho imparato bene una cosa. Scrivere nel momento dell'ispirazione. Questo modus operandi, fa sì che il pensiero arrivi fluido. Limpidamente così com'è nato verrà trascritto. 
Riflettevo sul fatto che io davvero sono nata nell'epoca nella quale i sogni non costavano. Non avevano un marchio, nè un prezzo. Non erano accessibili o inaccessibili rispetto al proprio reddito, ma alle proprie potenzialità. Erano sogni che potevano restare chiusi nel cassetto senza mai creare frustrazioni. Erano inconsistenti eppure provocavano reazioni sinestetiche. 
Nel tempo di cui parlo quando si chiedeva a un bambino: - Qual è il tuo sogno?-, egli rispondeva :-Vorrei essere come...papà, mamma, l'astronauta, lo scienziato.
Si coniugavano i sogni al verbo essere. E' questa la sostanziale differenza. I sogni erano un divenire della persona.   
Attualmente cosa cambia?
Cambiano i tempi?, le espressioni? I sogni? Cambia tutto. I bambini non sanno sognare. Se non da piccolissimi. Dopo il primo contatto con la realtà, smettono i loro sogni e usano i nostri. Se non fosse per quello che sto per dire, ognuno di voi sarebbe portato a credere che in questo processo non c'è nulla di sbagliato. Visto che sono figli nostri, gli abbiamo insegnato a sognare come facevamo noi. Invece no, tutto il contrario. La nostra generazione ha causato questa discontinuità. Come è presto detto. Abbiamo preso tutte le nostre frustrazioni, i giocattoli mai avuti, le nostre aspettative e le abbiamo messe in mano dei nostri bambini. La nostra giustificazione è stata :-Voglio dare a mio figlio, tutto quello che non ho avuto io .- 
In quest'assurda pretesa abbiamo toppato, e più che riempire la vita ai nostri bambini l'abbiamo svuotata. Gli abbiamo impedito di sognare, di vivere in quello stato fisico a mezz'aria. Tra realtà e fantasia. Gli abbiamo insegnato che i sogni stanno esposti in vetrina e che per averli dobbiamo "avere".
Gli abbiamo insegnato il baratto consumistico, quello inconsistente e improduttivo. Se chiediamo oggi a un bambino cosa sogna, risponderà di sicuro citando un noto marchio. I nostri figli, coniugano all'avere, piuttosto che all'essere. Ed è tutta colpa nostra. Colpa di chi ha gratificato il suo bambino interiore, per mezzo dei propri figli, rubandogli la capacità di accrescere il desiderio. Di proiettarsi al futuro e di creare un immagine di sé. Siamo nell'epoca dell'avere.

Educazione d'oggi

Entro di sponda con un po' di ritardo per dire la mia. Mi scuso, ma sono più mattiniera che nottambula. Da genitrice "giovane", mi trovo nella terra di mezzo. Sono nata nel periodo dello sguardo che inceneriva, perolmeno in casa del miei. Io credo che la verità e la giusta misura stiano sempre in mezzo. La scuola ha perso il suo potere educativo. E purtroppo l'ha perso anche la famiglia. Dietro la barbara scusa di volere il meglio per i figli, si cede solo nel dare loro cose fittizie. E l'intenzione a fin di bene si trasforma in diseducativa. Io ho un figlio di 14 anni, e non ho mai avuto bisogno di usare le mani. Questo non dipende dal suo carattere mite (visto che non lo è), ma dipende dal fatto che ho sempre fatto leva sull'empatia, sugli esempi pratici. Ogniqualvolta vedevo e vedo in lui un atteggiamento discutibile, lo riprendevo in forma dialogica. Trovo inutile picchiare i figli, specie perché quello che vogliamo censurare è frutto dell'educazione che gli abbiamo somministrato noi stessi. Un rapporto equilibrato deve basarsi sul rispetto reciproco non sul timore. Certo ogni tanto capita di alzare la voce, ma anche quello è solo un atteggiamento arrogante. Tutti compiamo piccole azioni, delle quali non ci rendiamo conto e i nostri figli registrano, assemblano, interpretano e poi attuano. Probabilmente questa, insieme a tante altre è solo parte di un insieme di motivazioni che ci hanno condotto all'estremità opposta. Bisogna far provare sulla pelle ai figli certe frustrazioni, per far capire loro che certe mancanze nei confronti degli adulti o dei coetanei, possono far male. Bisogna accompagnarli all'identificazione empatica, e verso tutte le esperienze sociali. Solo sperimentando tutti i ruoli, saranno in grado di sceglierne uno democratico. E poi smettiamola di dire "sono i compagni" che lo trascinano, perché i nostri figli hanno un cervello proprio e se non lo usano si vede che siamo stati noi stessi a fare in modo che non si attivasse proficuamente.Autocritica insomma.